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CSSII Centro Universitario di Studi Strategici Internazionali e Imprenditoriali

L'Impero tedesco e la guerra economica - di Giacomo Centanaro

(Pubblicato su Pandora Rivista il 12/03/2020 - https://www.pandorarivista.it/articoli/impero-tedesco-guerra-economica/)

L’articolo tratta delle tensioni e delle ostilità economiche tra Francia e Impero tedesco, che tra la fine del XIX secolo e lo scoppio della Prima guerra mondiale si confrontarono sul campo del commercio internazionale. Viene sottolineato il ruolo determinante della variabile economica nell’esacerbare i rapporti tra stati in condizioni di rivalità, ma non saranno trattate estensivamente le cause politiche e culturali che portarono le due potenze in guerra. Ci si concentra su un caso che ha costituito un perfetto prototipo delle forme di guerra economica contemporanea: l’assoggettamento e l’impoverimento di un paese e la compromissione della sua indipendenza attraverso la massiccia e pianificata conquista dei suoi mercati domestici, condotta da imprese private sostenute dagli strumenti esclusivi dello Stato. L’importante ruolo dei capitali francesi per la crescita dell’economia tedesca e la loro partecipazione agli investimenti diretti stranieri in Germania[1] non contraddice la tesi portata avanti in questo articolo, considerando che entrambi i sistemi paese e i rispettivi attori (sia pubblici che privati) concepivano i rapporti nei confronti dell’altro come una lotta per l’egemonia economica. Più che fatti isolati e distinti, vengono analizzate tendenze generali che hanno dipanato i loro effetti a volte nell’arco di decenni, non deve quindi stupire se per analizzare alcuni fenomeni vengono citati provvedimenti legislativi o dati cronologicamente distanti tra loro.

Seppure sensibile al tema del commercio, negli anni del suo cancellierato Bismark negò il sostegno alle grandi imprese che con la loro attività avrebbero potuto dare vita a delle tensioni diplomatiche e si batté contro l’assunzione di impegni coloniali vincolanti per l’amministrazione pubblica: il Reich avrebbe dovuto semplicemente accordare la propria protezione alle iniziative delle compagnie private.[2] Già dalla fine degli anni Settanta del XIX secolo, la Germania aveva iniziato a volgere lo sguardo verso le ampie prospettive offerte dall’era dell’imperialismo, ma le operazioni di conquista coloniale erano state avviate in modo cauto e con obiettivi circoscritti e mirati alla protezione degli interessi economici tedeschi dalla concorrenza britannica.[3] Ferrei limiti della realpolitik che avevano condotto la politica estera tedesca e che erano stati fissati non per mancanza di ambizione ma per i vincoli geopolitici della Germania. A partire dalle dimissioni di Bismark nel 1890, e in particolare a partire dal 1896, si susseguirono al governo cancellieri più deboli e inclini ad assecondare gli ambiziosi piani di Guglielmo II, e la Germania assunse definitivamente una nuova postura internazionale, fiduciosa della propria capacità di rompere i vincoli imposti dalle potenze vicine.

Tenendo presente l’importante eredità bismarkiana, il progetto espansionista tedesco prese slancio a partire dal 1896. Nel gennaio di quell’anno, in occasione del 25° anniversario della fondazione del Secondo Reich, Guglielmo II tenne un discorso che esprimeva tutte le ambizioni tedesche: «l’Impero tedesco è diventato un impero mondiale. Ovunque nelle regioni più lontane del globo abitano milioni di nostri compatrioti. I prodotti tedeschi, la scienza tedesca, lo spirito d’impresa tedesco attraversano gli oceani. A miliardi si contano i beni che la Germania trasporta sui mari…»[4]. Le parole di Guglielmo II possono essere considerate come il manifesto della nuova politica tedesca, che dimostrerà i suoi effetti fino alla resa del 1918: la Weltpolitik (“politica mondiale”). La nuova postura si espresse anche nelle questioni economiche, la cui rilevanza diventò primaria, e già nei primi anni Novanta si manifestò la necessità di una politica commerciale aggressiva sui mercati esteri, quando una crisi di sovraproduzione minacciò l’industria tedesca[5]. Era necessario trovare nuovi sbocchi per i beni tedeschi all’estero, scambiare materie prime con i paesi d’oltremare in cambio di prodotti manifatturieri e quindi, in un certo senso, creare una dipendenza.

Questo si concretizzò con numerosi trattati commerciali che dal 1891 al 1894 aprirono nuove strade ai beni tedeschi in Austria-Ungheria, Italia, Belgio, Spagna, Serbia, Svizzera e Russia, ma non bastarono a porre fine alla stagnazione delle esportazioni. Le criticità della situazione commerciale dell’Impero tedesco erano rappresentate dal fatto che il 45% delle importazioni era composto da materie prime e prodotti semi-lavorati e che in queste materie prime erano comprese importazioni alimentari che passarono dal 28% nel 1888 al 34% nel 1896, poiché la produzione nazionale non era sufficiente a coprire il fabbisogno della popolazione tedesca[6]. Questo portò la bilancia commerciale tedesca dall’essere in parità nel 1888 a essere fortemente negativa nel 1896. Ecco che si comprendono quindi le necessità impellenti dell’economia tedesca, e che il discorso di Guglielmo II assume un tono caratteristico di quello che venne definito come «nazionalismo reattivo»[7] che legò l’industrializzazione alla politica di potenza dello Stato-nazione. In un sistema internazionale basato sul balance of power, una dinamica così marcata non poteva certo essere ignorata dalle potenze coloniali più vecchie che vedevano sia i mercati domestici sia quelli che spesso erano stati conquistati con le armi, annessi a loro volta dai prodotti tedeschi. Il governo inglese era allarmato da dati inconfutabili: spesso le quote di commercio perse dalla Gran Bretagna erano quelle che erano acquisite dalla Germania e a partire dal 1896, il porto di Amburgo sostituì quello di Liverpool come primo porto al mondo[8]. Le voci di protesta si levavano anche dall’opinione pubblica; sempre nel 1896 il giornalista Ernest Edwin Williams pubblicò il libro Made in Germany in cui si constatava come lo splendore economico inglese fosse ormai un mito lontano; in una serie di articoli egli denunciava anche l’invasione dei prodotti tedeschi nella vita quotidiana dei sudditi britannici: il Made in Germany era ovunque[9].

Ma se per la Gran Bretagna la posta in gioco era allora essenzialmente di predominio economico, per la Francia la contesa assumeva un valore più profondo, che coinvolgeva l’orgoglio nazionale. In seguito alla cocente sconfitta nella guerra franco-prussiana, la Francia dovette subire la perdita di una delle sue regioni più ricche, l’Alsazia-Lorena, il pagamento di un indennizzo di 5 miliardi di franchi-oro alla Germania e soprattutto la somma umiliazione della proclamazione dell’Impero tedesco nella reggia di Versailles, dove Guglielmo I venne incoronato imperatore. Il revanscismo era sentito ovunque nella società francese, costantemente alimentato dalla mutilazione territoriale dell’Alsazia-Lorena e dei continui e apparentemente inarrestabili successi commerciali dell’Impero tedesco; i dati che arrivavano a Parigi costituivano la prova che la Germania stava conducendo una nuova guerra in tempo di pace, con il fine immutato di dominare (anche se commercialmente) la Francia.

A essere presenti sul suolo francese non erano solo i beni, ma le stesse imprese: per aggirare l’aumento delle tariffe doganali del 1892, gli industriali d’oltre Reno iniziarono a fondare filiali in Francia, piccole unità di produzione o punti vendita. Questa strategia consentì di acquisire larghe parti di mercato: le importazioni tedesche in Francia aumentarono del 43% tra il 1898 e il 1905 e del 38% tra il 1905 e il 1909, facendo di Berlino il terzo fornitore francese. Grazie alla nuova strategia e alla posizione dominante in numerosi campi (dai coloranti all’automobile e all’elettricità) nel 1906 la bilancia commerciale tra i due paesi era favorevole a Berlino. Il sentimento francese era quello di subire un vero e proprio assedio economico e i dati sembravano confermare questa sensazione: tra l’inizio del XX secolo e il 1910, i tedeschi riuscirono ad assumere il controllo su più di 17.000 ettari di giacimenti minerari francesi, ossia un quinto del totale dei giacimenti allora sfruttati in tutta la Francia, e inoltre le vendite di beni tedeschi crebbero da 161 milioni di franchi nel 1898 a 571 nel 1913[10]. È a questo punto che si può tracciare la linea di passaggio tra un fenomeno di concorrenza economica serrata tra due grandi economie confinanti e un conflitto interstatuale che mira all’assoggettamento del (o alla difesa dal) vicino, condotto attraverso la logica e i mezzi della guerra economica. Agli attori privati si aggiungono le istituzioni e le prerogative pubbliche, che traspongono la concorrenza del mercato in contesa per la supremazia.

A partire dal 1892 la stampa francese si mobilitò per promuovere un movimento di nazionalismo economico. I giornalisti denunciarono il camuffamento messo in atto dalle imprese tedesche che non apparivano in Francia sotto la loro vera nazionalità e preferivano presentarsi ai mercati con nomi fuorvianti che richiamassero invece un’origine francese[11]. Il governo francese tentò di reagire, rafforzando l’applicazione dei regolamenti doganali del 1892 e cercò di escludere le imprese tedesche dalla competizione, giustificando spesso i suoi interventi come questioni di tutela della sicurezza internazionale: è del 1913 la promulgazione della legge che puniva l’utilizzo abusivo del termine “francese” nella denominazione delle imprese, rivolta ad aziende quali Thyssen che compariva come “Società delle cave e delle miniere di Flamanville” o “Società delle fonderie e delle acciaierie di Caen”. Prima dell’approvazione di questa legge, le aziende Continental e AEG erano state obbligate ad apporre la dicitura “importato dalla Germania” sui prodotti provenienti dalla casa madre[12]. Oltre a queste misure difensive, la Francia iniziò a dotarsi di strutture adeguate a condurre una strategia offensiva di guerra economica, con una particolare attenzione all’intelligence economica. Il 4 marzo del 1898 venne istituito per legge l’Office national du commerce extérieur (ONCE); l’articolo 2 del testo normativo attribuiva a questa agenzia pubblica la missione di «fornire agli industriali e ai negozianti francesi le informazioni commerciali di qualsiasi natura che possano concorrere allo sviluppo del commercio esteriore e all’estensione dei suoi mercati nei paesi stranieri, nelle colonie francesi e nei protettorati». L’ONCE svolse un importante ruolo per la creazione di una rete informativa cui partecipassero sia soggetti pubblici che privati, nel quadro di una politica economica e informazionale concertata in cui le imprese francesi e le loro associazioni ricevevano le informazioni economiche e tecnologiche necessarie alla loro crescita all’estero[13].

La percezione francese della natura del conflitto economico allora in atto era quella di una guerra in piena regola. Si reputava che il successo tedesco derivasse dall’organizzazione e dalla ratio con cui la Germania considerava la propria proiezione economica: «L’invasione economica tedesca in Francia ha preceduto di vent’anni quella militare»[14]. Questa particolare invasione si basava sul coordinamento tra apparato commerciale, industriale e finanziario che potevano ricevere con facilità credito a lungo termine. Il punto di forza tedesco stava nella capacità degli attori economici di agire collettivamente con spirito di solidarietà, consentendo così un continuo travaso di conoscenze e informazioni ottenute grazie a una rete di spionaggio[15]. Il sistema di coordinamento tra pubblico e privato francese sotto alcuni aspetti non sembrava però dare gli stessi risultati di quello tedesco: nel 1908 Parigi finanziò l’esercito argentino, che però per acquistare nuovi pezzi di artiglieria non si rivolse alla francese Le Creusot ma alla tedesca Krupp; allora i dirigenti di Creusot fecero pressione sul governo affinché bloccasse l’accesso ai finanziamenti statali a iniziative che favorivano lo sviluppo delle industrie straniere[16].

Esempio lampante della capacità del tessuto imprenditoriale tedesco di “fare sistema” e di gestire la raccolta, l’analisi e la circolazione di informazioni sensibili, è l’associazione sassone-turingia degli industriali tessili, della metallurgia e della chimica, oggetto di studio da parte del ministro britannico Strachey. L’associazione disponeva di un proprio museo commerciale dove erano esposti campioni della produzione di tutti i suoi membri, i suoi cataloghi erano tradotti in numerose lingue; l’associazione poi inviava decine di missioni commerciali all’estero, non solo per promuovere i propri prodotti ma anche per condurre operazioni di spionaggio economico[17].

L’Impero tedesco si dotò anche di mezzi per affiancare e sostenere la guerra economica con una campagna informativa sul territorio nemico, un’intuizione che dimostrava una mentalità strategica capace di individuare strumenti funzionali al proprio obiettivo. Strumenti che costituiscono ancora oggi un mezzo fondamentale in quella che ora definiremmo “guerra cognitiva”. Il rapporto di sir Edmund Goshen[18] del 26 febbraio 1914 accusava gli industriali tedeschi di aver creato una società privata con il fine di influenzare la stampa in paesi stranieri. Questa società di comunicazione raggruppava le principali aziende tedesche e alla sua riunione costitutiva era presente anche il Segretario di Stato agli Affari Esteri in rappresentanza dello Stato tedesco, che contribuì al capitale della società con una sovvenzione di 312.500 franchi (su un totale di 625.000 raccolto tra imprese e banche tedesche). L’obiettivo della società era di «promuovere il prestigio industriale della Germania all’estero»[19], ossia di immettere nel circuito informativo mondiale messaggi positivi sull’economia e la società tedesca e di mettere a tacere i detrattori che danneggiavano l’immagine dell’Impero tedesco. Ali Laïdi riporta come gli uomini d’affari tedeschi venissero considerati privi di ogni etica e che numerosi autori francesi accusavano il sistema produttivo tedesco di fabbricare volontariamente prodotti di scarsa qualità e di etichettarli come made in France al fine di screditare la reputazione della manifattura francese. Viene citato il caso di tessuti inviati da Amburgo a Le Havre per poi essere da lì commercializzati in tutto il mondo; i prodotti contraffatti avrebbero rimpiazzato quelli originali sui mercati esteri, screditando l’industria francese[20].

Un quadro complessivo del fenomeno ci viene dato, infine, dal comandante Henri Andrillon, che nel 1914 pubblicò L’Expansion de l’Allemagne, ses causes, ses formes, ses conséquences in cui dedicò un capitolo all’espansione economica tedesca. Questa non sarebbe che il risultato di una strategia di guerra economica direttamente guidata dal «Primo commesso viaggiatore», l’imperatore Guglielmo II. Andrillon citò il generale von Bernhardi «i rapporti tra le nazioni dovrebbero essere considerati, spesso, come uno stato di guerra latente che, provvisoriamente si manifesta in un conflitto non armato…»[21]. Nel 1908 la Francia fu scalzata dalla posizione di seconda nazione industriale e commerciale dalla Germania. Nella sola Parigi si erano installate circa 300 attività tedesche, e anche settori strategici come quello della polvere da sparo erano caduti nelle mani della concorrenza tedesca, che era accusata di mantenere artificialmente i prezzi bassi per soppiantare i produttori francesi nelle commesse pubbliche del Ministero della Guerra[22].

Il progetto tedesco sarebbe stato quindi ben rappresentato da una citazione attribuita da Andrillon a Bismark «Abbiamo fatto la Sedan militare, ora non ci resta che fare la Sedan commerciale»: era allora in gioco l’indipendenza nazionale della Francia, messa in pericolo dalla dinamicità tedesca e dalla risposta, da alcuni giudicata troppo timida, delle istituzioni francesi, che nonostante l’inasprimento degli ostacoli amministrativi non riuscirono a limitare il deficit commerciale con la Germania. Si può qualificare il rapporto prebellico tra Francia e Germania come un caso di guerra economica, che evidenzia alcune caratteristiche e manifestazioni che tuttora permangono (vedi la contraffazione concorrenziale e gli attacchi informativi). La guerra economica ha alle spalle un progetto di potenza politico, che viene attuato da attori sia del settore privato che pubblico, poiché, come si è visto, spesso gli interessi dei due mondi coincidono. È una guerra di istituzioni, che vede fronteggiarsi associazioni imprenditoriali sostenute e finanziate dai dipartimenti di pubblica sicurezza degli stati, e in cui gli strumenti utilizzati attengono sia alle armi della concorrenza sleale che alla strategia militare. Si è anche visto come nel caso di società e mercati internazionali integrati l’opinione pubblica giochi un ruolo importante e l’infosfera sia campo di scontri non meno importanti di quelli che avvengono sul piano commerciale.

 
ultimo aggiornamento: 01-Apr-2020
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